Fare voci - Biblioteca Statale Isontina di Gorizia


Giovanni Fierro (intervista)

-perché la scelta del bianco e nero?
È facile. Da piccola usavo la macchina fotografica “Kiev” di mia nonna e la camera oscura (nel bagno senza finestre) che all’epoca faceva soltanto foto in bianco/nero. Il ‘vizietto’ mi si è rimasto, probabilmente, per la pulizia dell' immagine che si riesce ad ottenere e il gioco chiaro/scuro (ombra/luce) che si cerca di solito. È una questione che conosce ogni fotografo professionista. Ma, ultimamente, nella fotografia contemporanea (a volte) l’effetto ombra/luce sta scomparendo  del tutto e non è un difetto. La fotografia è cambiata grazie alle macchine digitali, dà molte più possibilità per la creatività, io invece sono ancora attaccata al mio vecchio modo vedere la fotografia.

-qual è il ‘tempo ‘ di queste foto, in quale ‘tempo’ vivono?
Infatti, come dicevo sopra, è un tempo passato remoto, ma molto remoto dove io giravo con mia nonna e fotografavo tutto (il giardino botanico, i boschi di Kiev dove abitai da piccola, il maestoso fiume Dniepr che si vedeva passare sotto)… tutto in bianco/nero. Quando queste vecchie fotografie le guardo ora, mi danno la sensazione di qualcosa ancora non ‘sverginato’, non capito… per questo, qualche anno fa ho pensato a miei filtri personali, ad un' applicazione manuale che mi permettesse di dare la vita ad una foto bianco/nera, darle quell’aria che potrebbe appartenerle ma in realtà è soltanto un miraggio. Lo faccio sulle foto mie, (non su quelle, antiche, del mio archivio) e cerco di liricizzare il più possibile ogni immagine sulla quale lavoro. La liricità è la caratteristica di questi tempi che va in contrasto con i tempi che viviamo…. È un calmante per gli occhi, è un invito  a riflettere, è una specie di lorazapam, xanax o qualcosa altro  che può far stare bene. Perché quando non mi sento bene, di solito prendo la macchina e vado nel parco sotto casa con i campi non coltivati e cerco di ‘guarire’ a modo mio: da lì nascono le mie margherite di novembre prima di morire o i paesaggi  che aspettano la neve che non arriva. Sono i ‘tempi’ che sono sospesi in attesa di un cambiamento, amano il vissuto (ritratti) e l'esteticamente 'aggrappante' (paesaggi).

-e che silenzio è, quello di cui sembrano queste foto nutrirsi?
Sono enormemente felice di questa tua definizione. Sorrido platealmente! Quando sono state scattate, attorno regnava un caos: la gente che tagliava erba, gli aerei che rombavano, i cani correvano su e giù, qualcuno che faceva ginnastica e passando mi salutava, (qua si saluta sempre, per educazione) li salutavo anch’io… e appena passava 'l'onda’ del disturbo mi buttavo sul soggetto per riprenderlo. Ogni uscita con la macchina fotografica – sono tantissimi scatti, 300 più o meno, controllo della luce esterna, le ombre, il girare attorno al sole,  il girare attorno al soggetto, ‘divorarlo’, sfruttarlo, ‘rubarlo’ per averlo e ricordarlo in qualche modo. Anche i ritratti non sono da meno: gli umani non amano la macchina fotografica professionale, non sono abituati, si irrigidiscono, non sanno come comportarsi. Quando lavoro sul mio progetto
“STRAvolti” dedicato agli artisti del Friuli Venezia Giulia, so già quali difficoltà mi aspettano. Perciò dietro c’è il lavoro del fotografo, quello che non si vede: creare diverse emozioni parlando con il soggetto. Mi capitò nel passato un soggetto esteticamente difficile: lo misi seduto con un pannello dietro e lo obbligai a raccontarmi la barzelletta più lunga che conosceva e il risultato è stato inaspettatamente stuzzicante.
Di solito, quando finisco di fotografare e torno a casa, poi scarico tutte le foto sul mio programma ed inizio la selezione – è il momento più magico del mio lavoro perché molto spesso quello che credevi importante viene addirittura cancellato del tutto e vengono selezionate le immagini che credevi di scartare. Quel silenzio che si nota nelle foto è un’ulteriore elaborazione che si aggiunge ad ogni fotografia. Nel mio archivio esistono molteplici varianti della stessa fotografia…. È un previlegio della fotografia che puoi ritoccare e salvare, quello che non potresti mai fare con un quadro che è un pezzo unico.

-mi sembra che nel tuo fotografare non ci siano differenze tra il ritrarre una persona, una natura morta o un paesaggio. Può essere così? E se sì, perché?
Io, dalla fotografia, voglio il carattere. Non amo la staticità.  La cerco nell’espressione del viso, nello sguardo, nel sorriso appena visibile, nel gesto particolare. Lo stesso nella natura: in un albero non perfetto, in un movimento non uniforme delle piante, delle margherite o, semplicemente, delle erbacce.
Io sono del parere che il fotografo deve avere il proprio stile e deve essere riconoscibile. Come un artista che quando espone le sue opere, la gente che lo guarda – dice: “Sì, è lui…”. Questo concetto inconscio lo posseggono moltissimi artisti, ma non tutti. Fare una bella foto non significa  essere un bravo fotografo. È più difficile mantenere il proprio stile e andando avanti (anche facendo i cambiamenti) non sforare troppo. Un fotografo contemporaneo deve essere riconoscibile già da una foto soltanto. Per questo nella mia fotografia c’è sempre un filo conduttore (inconscio probabilmente) che segue sempre una “linea di condotta” e se mi chiedete qual è,  non lo saprei neanche dire,  perché la mia fotografia è classica, o ‘classicotta’ come la chiamo amorevolmente, con le ombre che giocano un ruolo essenziale… come nel ritratto così anche nel paesaggio o nel macro che non è un macro classico, è soltanto un ingrandimento che fa uscire oggetti illuminati in primo piano grazie alle ombre aggiunte.

-come si relazione il tuo fare fotografia, con il tuo scrivere e il tuo dipingere?
Dipingo per mangiare, scrivo per curiosità e possibilità di dire alcune cose che non riesco a dire normalmente, fotografo perché è l'unico modo che ho per esprimere un senso estetico ed artistico, e questo lavoro non mi porta mal di schiena o mal di testa. La 'Fotografia' mi fa star bene: iniziando dalle camminate che per forza devi fare (a Lisbona, nel 2013, ho camminato per 4 giorni interi per tutta la città, su e giù per le colline, in lungo e in largo, dappertutto, senza mai prendere un mezzo di trasporto – 3000 fotografie, è stato il risultato).  Mi fa star bene, la fotografia, perché non ha fretta, non ti fa asciugare il colore, non ti fa modificare le sensazioni. Quando inizi a lavorare su ogni foto e capisci che uno scatto è perfetto – è un godimento mentale e nei tempi che corrono è una gran roba!!!!


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Natalia Bondarenko

Nata a Kiev (Ucraina). Dal 1990 vivo e lavoro prima a Milano, poi, a Pordenone, e ultimi dieci anni a Udine. Le mie mostre: 201...